I SEZIONE
Il Risorgimento nazionale tra epica e cronaca
Attorno al 1860, con la creazione del regno d’Italia sotto la monarchia dei Savoia, in pittura e in scultura si diffonde un nuovo repertorio di soggetti ispirati alle guerre di Indipendenza e alla loro ripercussione nella vita quotidiana. Le scene di guerra vengono rievocate in grandi composizioni, alcune di tono dichiaratamente celebrativo, spesso destinate alle rassegne d’arte. Inoltre risultano assai numerosi dipinti e sculture in cui gli artisti elaborano scene di genere, cioè attinenti a una quotidianità osservata con estrema attenzione nei confronti degli aspetti narrativi, spesso con finalità educative o moralistiche. Protagonista di tali composizioni è il mondo degli affetti familiari: la partenza di un soldato volontario per il fronte, l’arrivo ai familiari rimasti a casa di una lettera inviata dal campo, l’emulazione delle gesta eroiche da parte dei bambini, l’attesa, la trepidazione, il rimpianto e la nostalgia come sentimenti più spesso manifestati dai personaggi attraverso l’espressione del viso e la gestualità.
La vasta tela, risalente alla piena maturità di Hayez, è un significativo esempio della rilettura in chiave contemporanea dei fatti della storia d’Italia secondo una tendenza propria della pittura di storia di epoca romantica. L’episodio narrato, che riguardava la lotta tra papato e impero
nel XII secolo e, in trasparenza, si collegava all’annosa questione romana in epoca risorgimentale, è centrato sulla vicenda del Prete Orlando, messo di Enrico IV, che comunica al sinodo romano la destituzione da pontefice di Gregorio VII da parte dell’imperatore: Hayez immortala il momento in cui il Papa, fulcro emotivo e morale della vicenda, si pose a difesa del prete scismatico salvandogli la vita.
La vasta tela, risalente alla piena maturità di Hayez, è un significativo esempio della rilettura in chiave contemporanea dei fatti della storia d’Italia secondo una tendenza propria della pittura di storia di epoca romantica. L’episodio narrato, che riguardava la lotta tra papato e impero
nel XII secolo e, in trasparenza, si collegava all’annosa questione romana in epoca risorgimentale, è centrato sulla vicenda del Prete Orlando, messo di Enrico IV, che comunica al sinodo romano la destituzione da pontefice di Gregorio VII da parte dell’imperatore: Hayez immortala il momento in cui il Papa, fulcro emotivo e morale della vicenda, si pose a difesa del prete scismatico salvandogli la vita.
Ispirata a uno degli episodi cruciali della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, la tela si inserisce all’interno di quel recupero propriamente romantico delle fonti letterarie moderne che soppiantano i temi della mitologia classica in auge nella pittura neoclassica. La scena rappresenta Tancredi che, dopo aver duellato inconsapevolmente con Clorinda, della quale è segretamente innamorato, scopre di aver ucciso l’amata. I caratteri del dipinto, dal brano di paesaggio emotivamente intonato alla scena sino all’enfasi teatrale dei gesti, recuperano i celebri modelli hayeziani della pittura di storia.
Ispirata a uno degli episodi cruciali della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, la tela si inserisce all’interno di quel recupero propriamente romantico delle fonti letterarie moderne che soppiantano i temi della mitologia classica in auge nella pittura neoclassica. La scena rappresenta Tancredi che, dopo aver duellato inconsapevolmente con Clorinda, della quale è segretamente innamorato, scopre di aver ucciso l’amata. I caratteri del dipinto, dal brano di paesaggio emotivamente intonato alla scena sino all’enfasi teatrale dei gesti, recuperano i celebri modelli hayeziani della pittura di storia.
Fu soltanto nel 1866, a seguito della Terza Guerra d’Indipendenza, che le province venete furono annesse al Regno d’Italia. La tela di Zona si inserisce nel filone della pittura a tematica patriottica: sullo sfondo di una laguna silenziosa, l’imbarcazione traghetta un gruppo di personaggi che simboleggiano la speranza di veder unificata la terra veneta alla Patria. Al di là del giovane ragazzo che tiene in mano il ritratto del Re Vittorio Emanuele, è proprio l’accordo dei colori degli abiti delle donne, il rosso, il bianco e il verde, a rafforzare la simbologia patriottica.
Fu soltanto nel 1866, a seguito della Terza Guerra d’Indipendenza, che le province venete furono annesse al Regno d’Italia. La tela di Zona si inserisce nel filone della pittura a tematica patriottica: sullo sfondo di una laguna silenziosa, l’imbarcazione traghetta un gruppo di personaggi che simboleggiano la speranza di veder unificata la terra veneta alla Patria. Al di là del giovane ragazzo che tiene in mano il ritratto del Re Vittorio Emanuele, è proprio l’accordo dei colori degli abiti delle donne, il rosso, il bianco e il verde, a rafforzare la simbologia patriottica.
I due ritratti rappresentano il magistrato Augusto Buzzati e la moglie. Per la famiglia Buzzati, Molmenti, che ne frequentava abitualmente la residenza estiva di San Pellegrino, realizzò diverse opere e decorazioni per la villa. I due ritratti in ovale, facenti parte di una più ampia serie di lavori dedicati ai singoli membri della famiglia, colpiscono per la verità e l’immediatezza della resa che restituisce le qualità morali e intellettuali degli effigiati esponenti di un mondo borghese, colto e raffinato, in rapida affermazione.
I due ritratti rappresentano il magistrato Augusto Buzzati e la moglie. Per la famiglia Buzzati, Molmenti, che ne frequentava abitualmente la residenza estiva di San Pellegrino, realizzò diverse opere e decorazioni per la villa. I due ritratti in ovale, facenti parte di una più ampia serie di lavori dedicati ai singoli membri della famiglia, colpiscono per la verità e l’immediatezza della resa che restituisce le qualità morali e intellettuali degli effigiati esponenti di un mondo borghese, colto e raffinato, in rapida affermazione.
Commissionata nel 1830 dal conte trentino Girolamo Malfatti, la Venere, che riproduce le fattezze di Cecilie Chabert amante del committente, fu esposta a Brera quello stesso anno e fu giudicata scandalosamente lontana dai canoni della bellezza ideale. Lo sfrontato naturalismo di questo nudo contribuì a determinare, nella pittura di Hayez, il passaggio da un ideale neoclassico a istanze realiste proprie del primo Romanticismo: nella sua carnalità sensuale e diretta esprimeva, infatti, quello che lo stesso pittore definiva il «rispetto ch’io ho del vero».
Commissionata nel 1830 dal conte trentino Girolamo Malfatti, la Venere, che riproduce le fattezze di Cecilie Chabert amante del committente, fu esposta a Brera quello stesso anno e fu giudicata scandalosamente lontana dai canoni della bellezza ideale. Lo sfrontato naturalismo di questo nudo contribuì a determinare, nella pittura di Hayez, il passaggio da un ideale neoclassico a istanze realiste proprie del primo Romanticismo: nella sua carnalità sensuale e diretta esprimeva, infatti, quello che lo stesso pittore definiva il «rispetto ch’io ho del vero».
La tela è un esempio di alta qualità nello specifico genere delle vedute urbane. Canella, oltre a restituire con precisione e maestria prospettica la celebre Riva degli Schiavoni descrivendo gli edifici e le architetture, si impone per la verità nella resa delle tante macchiette – dai barcaioli ai venditori ambulanti sino alla nota di colore degli animali da cortile che scorrazzano lungo la Riva – che popolano la scena e che divengono tanti piccoli ritratti caratteristici del luogo, secondo moduli apprezzatissimi dal mercato italiano ed estero.
La tela è un esempio di alta qualità nello specifico genere delle vedute urbane. Canella, oltre a restituire con precisione e maestria prospettica la celebre Riva degli Schiavoni descrivendo gli edifici e le architetture, si impone per la verità nella resa delle tante macchiette – dai barcaioli ai venditori ambulanti sino alla nota di colore degli animali da cortile che scorrazzano lungo la Riva – che popolano la scena e che divengono tanti piccoli ritratti caratteristici del luogo, secondo moduli apprezzatissimi dal mercato italiano ed estero.
La veduta urbana notturna è un genere molto frequentato da Ippolito Caffi: si tratta di un tipo di paesaggio che permette all’autore di sbizzarrirsi nell’ideazione di effetti pittorici e luministici inediti. Ne è un esempio questa tela dedicata alle feste di San Pietro nel popolare Sestriere di Castello: l’occasione offerta dai festeggiamenti, permette a Caffi di giocare tra la pallida luce lunare che imperla delicatamente le acque della laguna e le abbacinanti luci dei fuochi di bengala che accendono le facciate dei palazzi.
La veduta urbana notturna è un genere molto frequentato da Ippolito Caffi: si tratta di un tipo di paesaggio che permette all’autore di sbizzarrirsi nell’ideazione di effetti pittorici e luministici inediti. Ne è un esempio questa tela dedicata alle feste di San Pietro nel popolare Sestriere di Castello: l’occasione offerta dai festeggiamenti, permette a Caffi di giocare tra la pallida luce lunare che imperla delicatamente le acque della laguna e le abbacinanti luci dei fuochi di bengala che accendono le facciate dei palazzi.
Il dipinto rappresenta un’importante premessa per la pittura di Guglielmo Ciardi e, soprattutto, si inserisce all’interno di un ripensamento del paesaggio veneziano. Bresolin ritrae una zona periferica di Venezia, le Zattere, e restituisce la scena senza alcuna concessione al folklorico o all’aneddoto. Protagonista assoluto è il paesaggio nella sua identità luministica e cromatica in un tentativo riuscito, per l’atmosfera sospesa quasi metafisica, di restituire il genius loci della laguna veneta.
Il dipinto rappresenta un’importante premessa per la pittura di Guglielmo Ciardi e, soprattutto, si inserisce all’interno di un ripensamento del paesaggio veneziano. Bresolin ritrae una zona periferica di Venezia, le Zattere, e restituisce la scena senza alcuna concessione al folklorico o all’aneddoto. Protagonista assoluto è il paesaggio nella sua identità luministica e cromatica in un tentativo riuscito, per l’atmosfera sospesa quasi metafisica, di restituire il genius loci della laguna veneta.
Al fianco della poesia della laguna, Ciardi dedica molti paesaggi alla terraferma veneta, in particolare alle campagne trevigiane. Il dipinto è uno dei massimi capolavori del pittore: la costruzione basata sulle diagonali e le orizzontali restituisce l’ampio orizzonte della campagna suggerendone la prosecuzione oltre i limiti della tela. È una campagna restituita “tal quale” al di fuori di ogni idealizzazione: i colori saturi e la luce limpidissima del mattino dettano l’intonazione emotiva della vita agreste in un silenzio appena interrotto dal rumore della barca che scivola lungo le acque del Sile.
Al fianco della poesia della laguna, Ciardi dedica molti paesaggi alla terraferma veneta, in particolare alle campagne trevigiane. Il dipinto è uno dei massimi capolavori del pittore: la costruzione basata sulle diagonali e le orizzontali restituisce l’ampio orizzonte della campagna suggerendone la prosecuzione oltre i limiti della tela. È una campagna restituita “tal quale” al di fuori di ogni idealizzazione: i colori saturi e la luce limpidissima del mattino dettano l’intonazione emotiva della vita agreste in un silenzio appena interrotto dal rumore della barca che scivola lungo le acque del Sile.
L’opera fa parte di una fortunata serie di variazioni sul motivo dei primi anni Ottanta. Con una pittura densa, a tratti materica e corsiva, Ciardi coglie e fissa i valori luministici e cromatici che rispondono all’intensa luminosità del momento rappresentato. La luce sbalza e definisce nettamente ogni elemento, dalle architetture in lontananza alle imbarcazioni, mentre le facciate della riva e le vele spiegate delle tartane fungono da schermi che irradiano la luce riflessa dalle acque che si tingono, tramite delle minute pennellate frante che ne percorrono in maniera febbrile tutta la superficie, di baluginii aranciati ora più intensamente azzurri.
L’opera fa parte di una fortunata serie di variazioni sul motivo dei primi anni Ottanta. Con una pittura densa, a tratti materica e corsiva, Ciardi coglie e fissa i valori luministici e cromatici che rispondono all’intensa luminosità del momento rappresentato. La luce sbalza e definisce nettamente ogni elemento, dalle architetture in lontananza alle imbarcazioni, mentre le facciate della riva e le vele spiegate delle tartane fungono da schermi che irradiano la luce riflessa dalle acque che si tingono, tramite delle minute pennellate frante che ne percorrono in maniera febbrile tutta la superficie, di baluginii aranciati ora più intensamente azzurri.
Datata al 1867, la tela costituisce uno dei primi documenti della nuova declinazione del paesaggio lagunare di Ciardi: distante dal fascino e dalla mitologia della Venezia cara al vedutismo di tradizione settecentesca e tesa a restituire la specificità ambientale della laguna. Il punto di vista è dato alla spiaggia di Santa Marta e permette un’apertura totale sul canale della Giudecca: la luce tenue dell’alba diventa la protagonista della scena dominata, come sempre accade nella pittura di Ciardi, dal dialogo tra i vasti e alti cieli rischiarati e l’acqua della laguna che riflette e rifrange la luminosità.
Datata al 1867, la tela costituisce uno dei primi documenti della nuova declinazione del paesaggio lagunare di Ciardi: distante dal fascino e dalla mitologia della Venezia cara al vedutismo di tradizione settecentesca e tesa a restituire la specificità ambientale della laguna. Il punto di vista è dato alla spiaggia di Santa Marta e permette un’apertura totale sul canale della Giudecca: la luce tenue dell’alba diventa la protagonista della scena dominata, come sempre accade nella pittura di Ciardi, dal dialogo tra i vasti e alti cieli rischiarati e l’acqua della laguna che riflette e rifrange la luminosità.
La tela è un chiaro esempio dell’influenza fondamentale che per Ciardi ebbe il contatto con le ricerche di ambito macchiaiolo e della Scuola di Resina approcciate durante un viaggio formativo nei tardi anni Sessanta lungo l’Italia centro-meridionale. Come molti critici rilevarono quando l’opera fu esposta nel 1872, il nucleo della composizione è dato dalla resa dell’effetto luminoso, fondato sull’accordo perfetto dei valori e dei toni e raggiunto tramite una pittura di potente sintesi che punta alla resa degli effetti di massima senza disperdersi nei dettagli, come si può apprezzare nella variazione dei bianchi dei panni stesi al sole.
La tela è un chiaro esempio dell’influenza fondamentale che per Ciardi ebbe il contatto con le ricerche di ambito macchiaiolo e della Scuola di Resina approcciate durante un viaggio formativo nei tardi anni Sessanta lungo l’Italia centro-meridionale. Come molti critici rilevarono quando l’opera fu esposta nel 1872, il nucleo della composizione è dato dalla resa dell’effetto luminoso, fondato sull’accordo perfetto dei valori e dei toni e raggiunto tramite una pittura di potente sintesi che punta alla resa degli effetti di massima senza disperdersi nei dettagli, come si può apprezzare nella variazione dei bianchi dei panni stesi al sole.
La tela recupera un motivo affrontato da Ciardi in veloci schizzi e bozzetti risalenti al viaggio del 1868 nel sud Italia. Giocando sulla dominante di due colori, l’azzurro terso e limpido del cielo e la variazione dei toni chiari abbacinanti della spiaggia, Ciardi restituisce i dettagli del paesaggio e i valori luministici e cromatici delle masse – si noti la sinteticità nella realizzazione delle imbarcazioni e delle figure dei marinai – rese attraverso un disegno riassuntivo e una stesura larga del colore puro che esalta l’accordo dei toni e dei valori luminosi
La tela recupera un motivo affrontato da Ciardi in veloci schizzi e bozzetti risalenti al viaggio del 1868 nel sud Italia. Giocando sulla dominante di due colori, l’azzurro terso e limpido del cielo e la variazione dei toni chiari abbacinanti della spiaggia, Ciardi restituisce i dettagli del paesaggio e i valori luministici e cromatici delle masse – si noti la sinteticità nella realizzazione delle imbarcazioni e delle figure dei marinai – rese attraverso un disegno riassuntivo e una stesura larga del colore puro che esalta l’accordo dei toni e dei valori luminosi
Il mesto soggetto della tela riflette una delle piaghe sociali dell’Ottocento, quello della mortalità infantile, ed è un tema più volte affrontato da Luigi Nono a partire da La convalescenza del 1874. La scena, ambientata in un’umile casa di contadini, fa perno attorno all’abbraccio della madre col piccolo malato mentre le cromie brune e ribassate, ravvivate dalle feritoie luminose alle pareti e dagli squilli cromatici delle nature morte di cenci e oggetti accatastati nello stanzone, riecheggiano la compassata temperatura emotiva del gruppo principale.
Il mesto soggetto della tela riflette una delle piaghe sociali dell’Ottocento, quello della mortalità infantile, ed è un tema più volte affrontato da Luigi Nono a partire da La convalescenza del 1874. La scena, ambientata in un’umile casa di contadini, fa perno attorno all’abbraccio della madre col piccolo malato mentre le cromie brune e ribassate, ravvivate dalle feritoie luminose alle pareti e dagli squilli cromatici delle nature morte di cenci e oggetti accatastati nello stanzone, riecheggiano la compassata temperatura emotiva del gruppo principale.
Questa tela, luminosa e solare, si inserisce all’interno delle tante opere che Dall’Oca Bianca dedica alla città di Verona e alla sua vita. Lungo il Ponte Nuovo, con lo sfondo dell’Adige rutilante di colori e della sfumata veduta metropolitana, una mammetta passeggia con i suoi due bimbi immersi nel pieno sole di una giornata primaverile. Il sapore d’immediatezza e di naturalezza della scena – che si sofferma sul rito sociale della promenade – deriva da uno scaltrito uso dei modelli fotografici che il pittore spesso utilizzava per impostare le proprie tele.
Questa tela, luminosa e solare, si inserisce all’interno delle tante opere che Dall’Oca Bianca dedica alla città di Verona e alla sua vita. Lungo il Ponte Nuovo, con lo sfondo dell’Adige rutilante di colori e della sfumata veduta metropolitana, una mammetta passeggia con i suoi due bimbi immersi nel pieno sole di una giornata primaverile. Il sapore d’immediatezza e di naturalezza della scena – che si sofferma sul rito sociale della promenade – deriva da uno scaltrito uso dei modelli fotografici che il pittore spesso utilizzava per impostare le proprie tele.
Il piccolo dipinto è una versione ridotta e pittoricamente più corsiva della tela esposta nel 1884 alla Nazionale di Torino che godette di un ampio consenso critico e fu acquistata dal Ministero della Pubblica Istruzione. La scena ruota attorno al nudino femminile ed è pervasa da un sottile sapore sensuale, quasi un’intrusione in un ambiente privato e intimo. Tutta la tela è caratterizzata da una fattura sintetica che esalta la freschezza e la vitalità cromatica intessendo la superficie di rialzi timbrici accordati tra loro tramite una sapiente armonizzazione dei toni e delle luci.
Il piccolo dipinto è una versione ridotta e pittoricamente più corsiva della tela esposta nel 1884 alla Nazionale di Torino che godette di un ampio consenso critico e fu acquistata dal Ministero della Pubblica Istruzione. La scena ruota attorno al nudino femminile ed è pervasa da un sottile sapore sensuale, quasi un’intrusione in un ambiente privato e intimo. Tutta la tela è caratterizzata da una fattura sintetica che esalta la freschezza e la vitalità cromatica intessendo la superficie di rialzi timbrici accordati tra loro tramite una sapiente armonizzazione dei toni e delle luci.
Lungo una diagonale che divide la riva sassosa dall’ampia e luminosa distesa del lago di Garda, Ettore Tito colloca un gruppo di lavandaie inginocchiate o inchinate sul bucato da cui viene isolata una giovane di profilo con lo sguardo rivolto in lontananza. L’artista si concentra nella resa del tono atmosferico e nella restituzione con intenso realismo dei particolari – le pietre, i panni abbandonati –, il tutto con una pennellata sintetica e vivace per meglio cogliere, come avviene delle sue opere, «gli istinti della giovinezza, i giochi di luce, il turbine della vita».
Lungo una diagonale che divide la riva sassosa dall’ampia e luminosa distesa del lago di Garda, Ettore Tito colloca un gruppo di lavandaie inginocchiate o inchinate sul bucato da cui viene isolata una giovane di profilo con lo sguardo rivolto in lontananza. L’artista si concentra nella resa del tono atmosferico e nella restituzione con intenso realismo dei particolari – le pietre, i panni abbandonati –, il tutto con una pennellata sintetica e vivace per meglio cogliere, come avviene delle sue opere, «gli istinti della giovinezza, i giochi di luce, il turbine della vita».
Caso quasi isolato nella produzione di Favretto – che al soggetto dedicò una seconda variazione nel 1878 – la tela nasce dalla frequentazione da parte del pittore delle campagne attorno Isola Rizza nel basso Veronese. Malgrado la scena connessa al mondo del lavoro, il vero soggetto dell’opera – che risente dell’esempio cromatico della pittura di Ciardi – è il paesaggio del quale Favretto punta a cogliere i valori di massima sintetizzando i rapporti tra le tinte e le luci e giocando con le ampie campiture di colori saturi.
Caso quasi isolato nella produzione di Favretto – che al soggetto dedicò una seconda variazione nel 1878 – la tela nasce dalla frequentazione da parte del pittore delle campagne attorno Isola Rizza nel basso Veronese. Malgrado la scena connessa al mondo del lavoro, il vero soggetto dell’opera – che risente dell’esempio cromatico della pittura di Ciardi – è il paesaggio del quale Favretto punta a cogliere i valori di massima sintetizzando i rapporti tra le tinte e le luci e giocando con le ampie campiture di colori saturi.
Esposto a Brera nel 1882, il dipinto coglie un episodio drammatico che coinvolge gli abitanti di un caseggiato popolare in preda alle fiamme. Dall’Oca Bianca rende la concitazione della scena studiando in maniera precisa i gesti e l’affanno dei personaggi restituendone la verità popolaresca. Le cromie squillanti, la fattura impressionistica affidata a pennellate rapide, il gioco luministico tra le ombre e il pieno sole, rimandano all’influsso diretto della pittura favrettiana.
Esposto a Brera nel 1882, il dipinto coglie un episodio drammatico che coinvolge gli abitanti di un caseggiato popolare in preda alle fiamme. Dall’Oca Bianca rende la concitazione della scena studiando in maniera precisa i gesti e l’affanno dei personaggi restituendone la verità popolaresca. Le cromie squillanti, la fattura impressionistica affidata a pennellate rapide, il gioco luministico tra le ombre e il pieno sole, rimandano all’influsso diretto della pittura favrettiana.
L’opera, esposta all’Internazionale di Roma del 1883, fu giudicata da alcuni critici come una delle migliori pitture di Favretto. Chirtani, in particolare, rilevò come la tela si imponesse per l’attenta orchestrazione cromatica che si fondava, in un parallelo musicale, su tre differenti registri: quello dei colori vivi e saturi del primo piano, quello delle mezze voci che costituiscono la vox media sulla quale si innestano gli squilli timbrici, e quello delle “smorzature” dato dal decrescere di intensità dei toni in profondità.
L’opera, esposta all’Internazionale di Roma del 1883, fu giudicata da alcuni critici come una delle migliori pitture di Favretto. Chirtani, in particolare, rilevò come la tela si imponesse per l’attenta orchestrazione cromatica che si fondava, in un parallelo musicale, su tre differenti registri: quello dei colori vivi e saturi del primo piano, quello delle mezze voci che costituiscono la vox media sulla quale si innestano gli squilli timbrici, e quello delle “smorzature” dato dal decrescere di intensità dei toni in profondità.
La piccola tavola è un capolavoro della pittura favrettiana tutto giocato sull’equilibrio e il contrapposto tra luce e ombra all’interno di una unità atmosferica e prospettica. Il soggetto, all’apparenza privo di interesse, è dettato dalla vita di Cecilia Zen, nobildonna veneziana celebrata anche dal Parini, nota per la sua vita eccentrica a cavallo tra XVIII e XIX secolo. La donna, secondo un suo costume, si vestiva spesso da uomo e il pittore la immagina al rientro da un evento mondano, in attesa dinanzi all’ingresso secondario del proprio palazzo, Ca’ Tron, nel Sestriere di Santa Croce.
La piccola tavola è un capolavoro della pittura favrettiana tutto giocato sull’equilibrio e il contrapposto tra luce e ombra all’interno di una unità atmosferica e prospettica. Il soggetto, all’apparenza privo di interesse, è dettato dalla vita di Cecilia Zen, nobildonna veneziana celebrata anche dal Parini, nota per la sua vita eccentrica a cavallo tra XVIII e XIX secolo. La donna, secondo un suo costume, si vestiva spesso da uomo e il pittore la immagina al rientro da un evento mondano, in attesa dinanzi all’ingresso secondario del proprio palazzo, Ca’ Tron, nel Sestriere di Santa Croce.
La tela ruota attorno a un tema aneddotico popolare che risente, anche sotto il profilo pittorico «a valori e toni largamente messi giù, senza minutame di fattura», dell’esempio di Giacomo Favretto. Lungo una delle fondamenta di Chioggia, un gruppo di persone osserva una giovane ragazza, staccata e rilevata cromaticamente sul resto della scena per mezzo dello zendado veneziano rosso intenso, che si allontana. Con il semplice espediente del ventaglio e della posa vezzosa del braccio, Tito pennelleggia l’identità della ragazza svelata dalla nota malevola dei popolani: «la fa la modela».
La tela ruota attorno a un tema aneddotico popolare che risente, anche sotto il profilo pittorico «a valori e toni largamente messi giù, senza minutame di fattura», dell’esempio di Giacomo Favretto. Lungo una delle fondamenta di Chioggia, un gruppo di persone osserva una giovane ragazza, staccata e rilevata cromaticamente sul resto della scena per mezzo dello zendado veneziano rosso intenso, che si allontana. Con il semplice espediente del ventaglio e della posa vezzosa del braccio, Tito pennelleggia l’identità della ragazza svelata dalla nota malevola dei popolani: «la fa la modela».
Refugium peccatorum è una delle opere più celebrate di Luigi Nono. Al 1882 data la versione maggiore, oggi conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, ma l’artista ne realizzò diverse. La prima, riferibile al 1881, è quella qui esposta: la giovane “figlia del mare” indossa e si stringe nella tonda, il capo di vestiario bianco caratteristico delle popolane chioggiotte, mentre, raccolta in preghiera ai piedi della statua della Madonna del Sagraèto, la sua figura si fonde con il paesaggio la cui malinconica atmosfera ne riecheggia il mesto stato d’animo.
Refugium peccatorum è una delle opere più celebrate di Luigi Nono. Al 1882 data la versione maggiore, oggi conservata alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, ma l’artista ne realizzò diverse. La prima, riferibile al 1881, è quella qui esposta: la giovane “figlia del mare” indossa e si stringe nella tonda, il capo di vestiario bianco caratteristico delle popolane chioggiotte, mentre, raccolta in preghiera ai piedi della statua della Madonna del Sagraèto, la sua figura si fonde con il paesaggio la cui malinconica atmosfera ne riecheggia il mesto stato d’animo.
Esposto alla Biennale di Venezia del 1901, il dipinto esprime pienamente la definizione di Raffaello Barbiera che indicò Tito come «il pittore del movimento; il pittore del vento, dell’aria». Il soggetto è dato da una popolana intenta a stendere i panni: la figura, monumentale, è circondata da un “movimento indiavolato” restituito prima ancora che dallo svolazzare dei panni sbattuti dal vento, da una pittura che, memore delle sprezzature tiepolesche, si impone per la sinteticità del tocco e la vivacità nella resa delle luci e dei colori.
Esposto alla Biennale di Venezia del 1901, il dipinto esprime pienamente la definizione di Raffaello Barbiera che indicò Tito come «il pittore del movimento; il pittore del vento, dell’aria». Il soggetto è dato da una popolana intenta a stendere i panni: la figura, monumentale, è circondata da un “movimento indiavolato” restituito prima ancora che dallo svolazzare dei panni sbattuti dal vento, da una pittura che, memore delle sprezzature tiepolesche, si impone per la sinteticità del tocco e la vivacità nella resa delle luci e dei colori.
Il dipinto fa parte di un dittico – composto da Visione Antica e Il Dolore – esposto alla Biennale di Venezia del 1901 col titolo di Parallelo. La tela è dominata dai tre dinamici nudi femminili, descritti con un ductus pittorico libero, intenti alla danza all’interno di un giardino. Al di là del piacevole decorativismo dell’immagine e del calibrato rapporto generato dalla ritmica sinuosa delle linee, le tre figure femminili nella loro nudità assurgono a simbolo e immagine, nella loro fusione panica con il paesaggio, del legame perduto e nostalgicamente rievocato tra uomo e Natura.
Il dipinto fa parte di un dittico – composto da Visione Antica e Il Dolore – esposto alla Biennale di Venezia del 1901 col titolo di Parallelo. La tela è dominata dai tre dinamici nudi femminili, descritti con un ductus pittorico libero, intenti alla danza all’interno di un giardino. Al di là del piacevole decorativismo dell’immagine e del calibrato rapporto generato dalla ritmica sinuosa delle linee, le tre figure femminili nella loro nudità assurgono a simbolo e immagine, nella loro fusione panica con il paesaggio, del legame perduto e nostalgicamente rievocato tra uomo e Natura.
Tipico esempio della pittura simbolista di Mario De Maria – accostabile, in questo caso, alla visionarietà delle opere di Böcklin – il dipinto si ispira alla leggenda di un monaco che per dedicarsi integralmente alla vita contemplativa si accecò. Al fianco di questo spunto narrativo, De Maria, attraverso un sapiente uso della luce, enfatizzata dall’immancabile biancore lunare che trasfigura il reale, introduce un altro e più profondo elemento di riflessione: il cranio del frate, infatti, ricorda un teschio alludendo al mistero della morte come parte costituente la vita stessa.
Tipico esempio della pittura simbolista di Mario De Maria – accostabile, in questo caso, alla visionarietà delle opere di Böcklin – il dipinto si ispira alla leggenda di un monaco che per dedicarsi integralmente alla vita contemplativa si accecò. Al fianco di questo spunto narrativo, De Maria, attraverso un sapiente uso della luce, enfatizzata dall’immancabile biancore lunare che trasfigura il reale, introduce un altro e più profondo elemento di riflessione: il cranio del frate, infatti, ricorda un teschio alludendo al mistero della morte come parte costituente la vita stessa.
L’opera è un chiaro esempio dell’evoluzione della pittura di Fragiacomo, stimolata in tal senso dal confronto con quella nordica di area scandinava e anglosassone, verso una più intima interpretazione del paesaggio. Se nella figura della pescatrice rimane vivo l’interesse, quasi favrettiano, per l’aneddoto realista, il vero fulcro narrativo e compositivo della tela diviene il paesaggio, colto nell’ora del tramonto con le sue luci crepuscolari, riletto in una dimensione soggettiva che tende a una trasfigurazione simbolica del dato reale.
L’opera è un chiaro esempio dell’evoluzione della pittura di Fragiacomo, stimolata in tal senso dal confronto con quella nordica di area scandinava e anglosassone, verso una più intima interpretazione del paesaggio. Se nella figura della pescatrice rimane vivo l’interesse, quasi favrettiano, per l’aneddoto realista, il vero fulcro narrativo e compositivo della tela diviene il paesaggio, colto nell’ora del tramonto con le sue luci crepuscolari, riletto in una dimensione soggettiva che tende a una trasfigurazione simbolica del dato reale.
Il dipinto si inserisce in una lunga serie di variazioni sulla vita della gente del mare. Esposta a Brera nel 1894 la tela ebbe un grande successo di critica e pubblico. Il motivo è dato dalla moglie di un barcaiolo che, con il figlio in braccio, aspetta il ritorno del marito per consegnagli il pasto. Le vaste dimensioni della tela prolungano il senso di attesa, dello spazio e del tempo del ritorno, di modo che le figure monumentali comunichino un intenso senso di solitudine e malinconia riecheggiato dal paesaggio, quietamente immobile, dalla colorazione verdastra.
Il dipinto si inserisce in una lunga serie di variazioni sulla vita della gente del mare. Esposta a Brera nel 1894 la tela ebbe un grande successo di critica e pubblico. Il motivo è dato dalla moglie di un barcaiolo che, con il figlio in braccio, aspetta il ritorno del marito per consegnagli il pasto. Le vaste dimensioni della tela prolungano il senso di attesa, dello spazio e del tempo del ritorno, di modo che le figure monumentali comunichino un intenso senso di solitudine e malinconia riecheggiato dal paesaggio, quietamente immobile, dalla colorazione verdastra.
Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma tra il 1941 e il 1944, e Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane dal 1939 al 1944, vengono convocati da Herbert Kappler, Capo della Polizia di Sicurezza tedesca (Sipo) a Roma, a Villa Wolkonsky, sede dell’ambasciata tedesca fino all’occupazione. Kappler chiede la consegna di 50 chili d’oro alla Comunità, pena la deportazione di 200 dei suoi membri.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Settimia Spizzichino
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Dante Almansi sul suo colloquio con Herbert Kappler, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Milano, Guerini e associati, 2006.
“Voi e i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. È il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro paese. Entro 36 ore dovete versarmene 50 Kg. Se lo verserete non vi sarà fatto del male. In caso diverso, 200 fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui.”
Da G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“Effettivamente, la sera del 26 settembre 1943, il presidente della Comunità Israelitica di Roma e quello dell’Unione delle Comunità Italiane – tramite il dott. Cappa, funzionario della Questura – erano stati convocati per le ore 18 all’Ambasciata Germanica. Li ricevette, paurosamente cortese e «distinto», il Maggiore delle SS Herbert Kappler, che li fece accomodare e per qualche momento parlò del più e del meno in tono di ordinaria conversazione. Poi entrò nel merito: gli ebrei di Roma erano doppiamente colpevoli, come italiani […] per il tradimento contro la Germania, e come ebrei perché appartenenti alla razza degli eterni nemici della Germania. Perciò il governo del Reich imponeva loro una taglia di 50 chilogrammi d’oro, da versarsi entro le ore 11 del successivo martedì 28. In caso di inadempienza, razzia e deportazione in Germania di 200 ebrei. Praticamente: poco più di un giorno e mezzo per trovare 50 chili d’oro.”