Testimonianza di Settimia Spizzichino, in Settimia Spizzichino, Isa di Nepi Olper, Gli anni rubati. Le memorie di Settimia Spizzichino, reduce dai Lager di Auschwitz e Bergen – Belsen, Comune di Cava de’Tirreni, 1996.
“Ci fecero scendere alla Stazione Tiburtina. Fummo spinti su un treno che sostava su un binario morto; ci caricarono sui carri bestiame. E quando fummo saliti li chiusero e li piombarono […]. A sera il convoglio si mosse. Per dove non sapevamo. Verso il Nord, ci faceva pensare il nome delle stazioni che si riusciva a intravedere dalle fessure. Eravamo una cinquantina nel vagone, stipati uno contro l’altro. Qualcuno aveva fatto un buco nel pavimento per i propri bisogni. Un viaggio interminabile, sempre chiusi lì dentro, tranne quando il treno si fermava in aperta campagna e ci facevano scendere per i bisogni più urgenti; qualche volta riuscivamo anche a bere, sempre guardati a vista. Di mangiare non se ne parlava, dopo che avevamo consumato quello che avevamo portati.
A Padova la Crocerossa bloccò il treno e ci fu portata una scodella di minestra. […] Ma stavo guardando da una fessura, e vidi portare a terra un corpo; il cadavere di un uomo, il primo. […] Molti altri morirono su quel treno e rimasero lì fino all’arrivo. Mi sentivo male, e non era soltanto l’emozione o la paura; avevo forti dolori al ventre. «Non ti preoccupare – diceva mia madre – appena arriviamo ti porto da un dottore». Un dottore… come poteva sapere mia madre cos’è un dottore in un Lager? Come poteva prevedere quello che si aspettava?
[…] Il sesto giorno di viaggio all’alba il treno si fermò. In aperta campagna: un binario e basta, non si vedeva altro. Solo, lontano, un fabbricato e tutto attorno, per chilometri, filo spinato. Non sapevamo che era percorso dalla corrente elettrica ad alto voltaggio. L’avremmo imparato.”
Da G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“Verso l’alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma-Tiburtino, dove li stivarono su carri bestiame, che per tutta la mattina rimasero su un binario morto. Una ventina di tedeschi armati impedivano a chiunque di avvicinarsi al convoglio.
Alle ore 13.30 fu dato in consegna al macchinista Quirino Zazza, costui apprese quasi subito che nei carri bestiami «erano racchiusi» – così si esprime una sua relazione – «numerosi borghesi promiscui per sesso e per età, che poi gli risultarono appartenere a razza ebraica».
Il treno si mosse alle 14.00. Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il «treno piombato» da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare più di rimetterli nel consorzio umano, è l’ultima parola, l’ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro. Nei pressi di Orte, il treno trovò un semaforo chiuso e dovette fermarsi per una decina di minuti. «A richiesta dei viaggiatori invagonati» – è ancora il macchinista che parla – alcuni carri furono sbloccati perché «chi ne avesse bisogno fosse andato per le funzioni corporali». Si verificarono alcuni tentativi di fuga, subito repressi con una nutrita sparatoria. A Chiusi altra breve fermata per scaricare il cadavere di una vecchia, deceduta durante il viaggio. A Firenze il signor Zazza smonta, senza essere riuscito a parlare con nessuno di coloro a cui aveva fatto percorrere la prima tappa verso la deportazione. Cambiato il personale di servizio, il treno proseguì per Bologna. Né il Vaticano, né la Croce Rossa, né la Svizzera né altri Stati neutrali sono riusciti ad avere notizie dei deportati. Si calcola che solo quelli del 16 ottobre ammontino a più di mille, ma certamente la cifra è inferiore al vero perché molte famiglie furono portate via al completo, senza che lasciassero traccia di sé, ne parenti o amici che potessero segnalare la scomparsa.”
Testimonianza di Armino Wachsberger, in Arminio Wachsberger, L’interprete. Dalle leggi razziali alla Shoah, storia di un italiano sopravvissuto alla bufera, a cura di Clara e Silvia Wachsberger, Milano, Proedi, 2010.
“Il 18 ottobre, un lunedì, ci svegliarono prima dell’alba e ci diedero l’ordine di radunarci con tutte le nostre cose. Gli stessi camion neri che ci avevano trasferito lì al Collegio Militare, erano pronti in cortile per accoglierci nuovamente. I convogli attraversarono tutta Roma ancora deserta a causa del coprifuoco, poi percorsero la via Tiburtina arrivando all’omonima stazione ferroviaria. Non si fermarono alla stazione passeggeri però, si spinsero più in là, dove si trovava lo scalo nel quale venivano caricati il bestiame le merci. Scendemmo dai camion e ci trovammo quasi al centro degli scali, in una zona evidentemente ben lontana dalla vista degli altri passeggeri, quelli “normali”. Fermo sui binari si vedeva un lungo treno merci di colore rossiccio, con le porte scorrevoli spalancate che lasciavano intravedere l’interno quasi completamente buio. Era composto da circa una ventina di vagoni. La sola idea di entrare lì era per noi ripugnante e umiliante al tempo stesso. Le SS costrinsero tutti i prigionieri a salire sui vagoni bestiame, fino a riempirli all’inverosimile. Appena un vagone era stracarico di passeggeri, i soldati facevano scorrere le porte e lo chiudevano con una sbarra di ferro che lo sigillava all’esterno. Io rimasi fuori sino a operazione terminata perché dovevo tradurre gli ordini delle SS, poi salii sull’ultimo vagone con la mia famiglia…”
“Il 20 ottobre il treno raggiunse il passo del Brennero e si fermò alla frontiera. Il personale italiano abbandonò il convoglio e fu sostituito da quello tedesco. I carri bestiame furono aperti. Eravamo ormai ridotti allo stremo, senza più forze, immobili, infreddoliti dagli abiti troppo leggeri per quell’altitudine…”
“La sera del terzo giorno il convoglio si fermò a Furth Im Wald, in Baviera. Alcune Crocerossine tedesche salirono sul treno, portando un po’ di minestra d’orzo a noi prigionieri ormai ridotti in condizioni pietose…”
“I vagoni furono aperti e ci fecero scendere. Vidi un cartello in tedesco che indicava una latrina per prigionieri di guerra russi. Fummo sollecitati ad usarla, e con l’occasione tentammo a fatica di fare un po’ di pulizia nei vagoni, anche se avevamo il divieto assoluto di toccare i cadaveri, ormai sempre più numerosi. Qualche ora dopo riprendemmo il viaggio. Eravamo ridotti come larve, anche la speranza, l’ultima a morire, stava svanendo, il treno ormai proseguiva avvolto in un inquietante silenzio.”
Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma tra il 1941 e il 1944, e Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane dal 1939 al 1944, vengono convocati da Herbert Kappler, Capo della Polizia di Sicurezza tedesca (Sipo) a Roma, a Villa Wolkonsky, sede dell’ambasciata tedesca fino all’occupazione. Kappler chiede la consegna di 50 chili d’oro alla Comunità, pena la deportazione di 200 dei suoi membri.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Settimia Spizzichino
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Dante Almansi sul suo colloquio con Herbert Kappler, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Milano, Guerini e associati, 2006.
“Voi e i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. È il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro paese. Entro 36 ore dovete versarmene 50 Kg. Se lo verserete non vi sarà fatto del male. In caso diverso, 200 fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui.”
Da G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“Effettivamente, la sera del 26 settembre 1943, il presidente della Comunità Israelitica di Roma e quello dell’Unione delle Comunità Italiane – tramite il dott. Cappa, funzionario della Questura – erano stati convocati per le ore 18 all’Ambasciata Germanica. Li ricevette, paurosamente cortese e «distinto», il Maggiore delle SS Herbert Kappler, che li fece accomodare e per qualche momento parlò del più e del meno in tono di ordinaria conversazione. Poi entrò nel merito: gli ebrei di Roma erano doppiamente colpevoli, come italiani […] per il tradimento contro la Germania, e come ebrei perché appartenenti alla razza degli eterni nemici della Germania. Perciò il governo del Reich imponeva loro una taglia di 50 chilogrammi d’oro, da versarsi entro le ore 11 del successivo martedì 28. In caso di inadempienza, razzia e deportazione in Germania di 200 ebrei. Praticamente: poco più di un giorno e mezzo per trovare 50 chili d’oro.”