From Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“The lines were pushed towards the ungainly building of Antiquities and Fine Arts, at the corner of the Portico d’Ottavia facing Via Catalana, between the Church of Sant’Angelo and the Theatre of Marcellus. There was a small area of excavations in front of the building there, packed with ruins, a few feet below street level. The Jews were gathered together in this ditch and put in line to wait for the return of the three or four lorries that were going back and forth between the Ghetto and the place where the first stop was planned.”
Testimony of Gabriella Ajò, from Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino (edited by), Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Roma, Guerini e Associati, 2006.
“My family and I lived at number nine, on Via Portico d’Ottavia and have never moved […]. I remember a woman leaning out of her kitchen window to call her daughter who lived with her mother-in-law on the floor below: ‘Rina, Rina.’ The daughter had already fled and was still holding a baby bottle to feed her daughter some milk. On hearing her name being called, she wanted to go back to her mother, but someone stopped her and said, “Hey, where on earth are you going?”, and this is how she managed to save herself and her baby girl. It was a terrible day.”
Testimony of Leone Sabatello, from Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino (edited by), Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Roma, Guerini e Associati, 2006.
“We lived at number nine, Via Portico d’Ottavia […]. It was raining on October 16; I was sleeping when my father heard noises around 5.30 or six o’clock. He looked out of the window and saw a squad of soldiers and some families leaving their buildings with suitcases, being gathered together in what is now Piazza 16 Ottobre. I was also taken there. The Nazis came into my house, they had a piece of paper with a list of names. They were also looking for my brother, but he was in Ciampino. The Nazis told us we had to go on a long journey and so we should take some food with us. We got dressed and went outside. They loaded us onto trucks and took us to the Military College, where someone even tried to make us convert.”
From Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“A young man broke out of line: he had permission to go and get a coffee, under the surveillance of an SS, but the officer did not want to ‘keep him company’. He swallowed noisily, his hands were trembling, and his knees were knocking too. He cast his frightened gaze towards the bar tables, where he used to sit and play cards in the evenings when he still had a future. With a kind of timid, tired smile, he asked the barman:
‘What will they do with us?’”
From Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“It seems that the alarm was first raised by a woman called Letizia: a big old lady, pompous in style and manner, with staring eyes and big thick lips, set in an inert, expressionless smile. Out of that mouth came a distracted, irritated voice, extraneous to what it says. Around five o’clock, she was heard to scream:
‘Oh God, the mammoni’
‘Mammoni’ in Roman-Jewish dialect means the cops, the guards, the police, the armed forces. In fact, they were the Germans with their heavy, rhythmic step (we know people for whom this step has stayed the symbol, the terrifying audible equivalent of German terror), who started blocking the Ghetto’s streets and houses.”
Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma tra il 1941 e il 1944, e Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane dal 1939 al 1944, vengono convocati da Herbert Kappler, Capo della Polizia di Sicurezza tedesca (Sipo) a Roma, a Villa Wolkonsky, sede dell’ambasciata tedesca fino all’occupazione. Kappler chiede la consegna di 50 chili d’oro alla Comunità, pena la deportazione di 200 dei suoi membri.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Settimia Spizzichino
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Dante Almansi sul suo colloquio con Herbert Kappler, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Milano, Guerini e associati, 2006.
“Voi e i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. È il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro paese. Entro 36 ore dovete versarmene 50 Kg. Se lo verserete non vi sarà fatto del male. In caso diverso, 200 fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui.”
Da G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“Effettivamente, la sera del 26 settembre 1943, il presidente della Comunità Israelitica di Roma e quello dell’Unione delle Comunità Italiane – tramite il dott. Cappa, funzionario della Questura – erano stati convocati per le ore 18 all’Ambasciata Germanica. Li ricevette, paurosamente cortese e «distinto», il Maggiore delle SS Herbert Kappler, che li fece accomodare e per qualche momento parlò del più e del meno in tono di ordinaria conversazione. Poi entrò nel merito: gli ebrei di Roma erano doppiamente colpevoli, come italiani […] per il tradimento contro la Germania, e come ebrei perché appartenenti alla razza degli eterni nemici della Germania. Perciò il governo del Reich imponeva loro una taglia di 50 chilogrammi d’oro, da versarsi entro le ore 11 del successivo martedì 28. In caso di inadempienza, razzia e deportazione in Germania di 200 ebrei. Praticamente: poco più di un giorno e mezzo per trovare 50 chili d’oro.”