formato A6
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
“Maternità”, capolavoro assoluto di Previati ed icona del divisionismo italiano, la ammiriamo qui piuttosto che nella sala dedicata alla Prima Triennale di Brera del 1891 che è stata l’uscita ufficiale del divisionismo italiano. Il quadro è posizionato all’ingresso perché il Banco BPM, che ne è proprietario, ha voluto che fosse fruibile da tutti. E’ un’opera in cui simbolismo e divisionismo sono uniti in una sola cosa. Attraverso questa pennellata molto fluida e grafica, grandi lineamenti di colori puri non solo rendono il quadro più luminoso ma dematerializzano anche le figure. Per Previati l’opera non deve essere una ripresa della realtà, ma una trasposizione del sogno. Il dipinto, eseguito da Previati nel momento in cui la sua compagna sta aspettando un bambino, è la glorificazione della maternità in assoluto. Questa non è la Madonna, ma la secolarizzazione del tema della Vergine Maria in mezzo agli angeli, intenta ad allattare il suo Bambino. Il dipinto ha avuto un’influenza enorme. E’ stato quello più bistrattato alla Triennale per la sua tecnica così nuova ed evidente, ma ha avuto anche un’influenza.
1890-1891
olio su tela, 177 x 411,5 cm.
Novara, collezioni del Banco BPM
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
Con Ranzoni, uno dei pittori più importanti del secondo ottocento purtroppo non sufficientemente conosciuto, il ritratto diviene vera e propria lettura dell’anima. I bambini da lui effigiati, pur quasi sempre di classe privilegiata, hanno una evidente espressione di tristezza. Non fa eccezione il piccolo Willy, capolavoro della ritrattistica europea che un recente restauro ha restituito alla sua bellezza originaria, facendo emergere i colori perlacei dello sfondo e quelli più brillanti in primo piano. La mancanza di sorriso e lo sguardo sottomesso evocano un’infanzia senza gioia. Osserviamo la pennellata franta, a piccoli tocchi, già divisi nel volto, a tratti larghi nella blusa: lo scapigliato Ranzoni ha creato un linguaggio nuovo perfettamente idoneo alla traduzione delle emozioni. Siamo nel 1885, per lui è il canto del cigno. Appena cinque anni più tardi, un anno dopo la sua scomparsa, Vittore Grubicy ne organizzerà la retrospettiva. L’evento avrà un’influenza determinante sui futuri divisionisti formati all’Accademia di Brera che ne raccoglieranno la lezione.
Collezione privata
Siamo qui in presenza di un’opera che di divisionista ancora non ha nulla. Il richiamo della primavera per due giovani monache che al di là del muro del convento scoprono un nido costituisce un sottinteso psicologico tipico della corrente Scapigliata. Ciò nonostante il dipinto costituisce una reazione a tale corrente in quanto l’opera dà risalto anche al paesaggio che per gli scapigliati era di gran lunga secondario. Il dipinto risale alla fine del biennio 1882-1884, epoca del sodalizio tra Longoni e Segantini in Brianza, quando i due giovani condividevano casa e vitalizio, lavorando insieme sotto contratto per la Galleria Grubicy. Era stato Segantini a presentare Longoni, suo amico sin dai tempi dell’Accademia di Brera, al quale lo legava un comune passato di miseria. Curiosamente, il dipinto è quello che chiuse il sodalizio. Vittore Grubicy, che per contratto si era arrogato il diritto di firmare le opere di Segantini, appose su questa, per lui giustamente superiore a quella di Segantini di analogo soggetto, il monogramma G.S, ancora visibile oggi seppur semi cancellato. Longoni, reagendo al sopruso, ruppe drasticamente con il compagno e il mercante, mettendo fine a un rapporto che era stato comunque proficuo per entrambi.
Milano, Fondazione IRCCS Ca’ Grande Ospedale Maggiore Policlinico
Dopo aver incontrato il linguaggio etereo di Previati nel capolavoro monumentale “Maternità”, che avete ammirato al piano terreno, dovete fare lo sforzo di tornare indietro nell’evoluzione dell’artista. In quest’opera, anteriore di oltre 4 anni rispetto a “Maternità”, Previati riprende un tema notissimo nel cosiddetto orientalismo europeo che ha radice nel celeberrimo dipinto di Delacroix “Donne d’Algeri nei loro appartamenti (1833)”, quello delle scene di harem, care ai visitatori dei Salons parigini. Tuttavia, l’orientalismo qui è soltanto pretesto a un soggetto derivato dalla letteratura romantica e decadente: la glorificazione della droga come porta del sogno, creatrice di visioni non percepibili senza il suo tramite, quale la celebrava Baudelaire. Il richiamo alla scapigliatura è nella natura del soggetto più che nel modo di dipingere. “Le fumatrici di hashish” è comunque un dipinto di transizione. La materia è ancora spessa e ad impasto. Le pennellate e i toni bassi – fanno eccezione soltanto i fili colorati del tappeto sul quale si accucciano le donne – suggeriscono la trasparenza del fumo e l’abbandono di queste donne dal volto rovesciato in estasi, isolate nel loro mondo onirico.
Collezione privata
“La portatrice d’acqua”, oggi conservato presso il Museo Segantini di San Moritz e restaurato appositamente per la mostra, testimonia il momento di passaggio per Segantini dalla pittura ad impasto al divisionismo. Vi suggerisco un confronto con “Dopo il temporale”, in questa stessa sala, realizzato ancora in Brianza tra il 1884 e il 1886 e interamente a impasto. In “La portatrice d’acqua” invece, eseguito dopo l’emigrazione nei Grigioni, abbiamo l’esempio dell’esordio divisionista di Segantini che anticipa quello di tutti gli altri suoi colleghi. La pennellata si fa spezzata, divisa appunto, nella resa dell’erba, delle mani, delle maniche e della gonna e si avverte già l’uso dei complementari. L’effetto tattile delle cose, la raffinata sensualità si esprimono proprio nella divisione del colore. La protagonista è Barbara Uffer (detta Baba), la ragazza assunta dai Segantini sin dall’arrivo a Savognino come bambinaia e aiutante di casa, divenuta l’unica modella. Il formato verticale, la presenza del muro che chiude l’orizzonte, la posizione di spalle che nasconde il volto: tutto concorre a un senso di oppressione, pacatamente accettata.
Saint Moritz, Museo Segantini
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
Rispetto alle numerose opere di natura sociale presenti nell’esposizione, “L’oratore dello sciopero” è l’unica ad affrontare un soggetto a forte valenza politica, ovvero lo sciopero con cui il 1° maggio del 1890 il popolo di Milano aveva celebrato per la prima volta la Festa dei Lavoratori; sciopero trasformatosi in una giornata di tumulti e scontri armati. Longoni, come documenta un disegno a matita sul suo taccuino, aveva assistito e forse partecipato a questi scontri. La veemenza della scena trova un eco nelle pennellate veloci, poco materiche, dal tratto a volte aggressivo, e la divisione dei colori primeggia nell’uso dei complementari bleu e rossi del vasto cielo. L’audace taglio compositivo di derivazione fotografica, in cui il punto di vista dell’artista coincide con quello dell’oratore issatosi sull’impalcatura di un cantiere, è anche elemento fondamentale nell’ esprimere la violenza della scena. L’opera è, perciò, un vero e proprio manifesto di intenti da parte di Longoni. L’artista, mostrandosi letteralmente a fianco dei muratori, annuncia di voler fare della propria pittura uno strumento di comunicazione politica, adoperando un linguaggio modernissimo che spiazza lo spettatore.
Barlassina, Banca Popolare di Barlassina
Segantini descrive così l’opera: “due vacche che tornano alla stalla in una giornata di pioggia” e infatti la chiama “Giorno di pioggia”, titolo sicuramente più evocativo rispetto all’attuale e riduttivo “Vacca”. Il dipinto, di un divisionismo rigoroso inteso a rinforzare la valenza naturalista del soggetto, fu quasi ignorato dalla critica che si concentrò invece su “Le due madri”, oggi conservato alla Galleria d’arte Moderna di Milano e considerato una delle icone del divisionismo. Le due tele condividono le proporzioni e il taglio allungato ma quella in esame ha misure inferiori. Ogni singolo elemento del dipinto ha una presenza quasi fisica: il manto grondante delle bestie, la staccionata, l’acqua che scorre nei solchi del terreno, le costruzioni intonacate e le strutture in legno. La varietà delle pennellate che disegnano o accompagnano le forme e l’utilizzo più sistematico dei colori puri sono gli elementi che gli conferiscono quella sensualità quasi tattile. Alla dovuta distanza (quattro volte l’altezza del dipinto) le pennellate si fondono e dominano i verdi, i grigi perlacei e i bruni: tutto contribuisce a rendere l’atmosfera umida di una giornata di pioggia. È un paesaggio composto che riprende e ricrea un cortile di Savognino, presente anche in altre sue opere.
Rüschlikon, Zurigo, Fondazione “Im Grüene”
Con l’adozione della tecnica divisionista, in quest’opera l’artista si misura con lo splendore della luce naturale, in un passaggio tra finzione imitativa del vero e una nuova pienezza della realtà, di cui egli dichiarava la rigenerante potenza simbolica. “Petalo di rosa”, che Segantini avrebbe voluto chiamare “Foglia di rosa”, e che ritrae il bel volto di Bice, sua compagna di vita, cela in sé un mistero. Gli interventi di restauro e le recenti analisi diagnostiche, dimostrano inequivocabilmente come l’opera sia stata ridipinta sopra “Tisi galoppante”: una scena di genere che raffigurava una giovane agonizzante di cui era ritratta solo la testa affondata in un cuscino con pochi altri elementi d’ambiente. La lettura stratigrafica del dipinto ha rivelato l’uso dei metalli, oro e argento, una pratica rinascimentale in sé antitetica al divisionismo, che accentra la luce sugli occhi e la chioma, nonché sulla tappezzeria del fondo. Nel 1890, quando dipinge “Petalo di Rosa”, Segantini pratica il divisionismo ormai da circa quattro anni, 9 da Tisi galoppante, e sono anni fondamentali, di grandi sconvolgimenti, che spiegano il motivo per cui, ormai figura di spicco internazionale, abbia voluto cancellare un quadro degli esordi, ridipingendone un altro sulla stessa tela, di maggior respiro e consono alla sua evoluzione.
Olio su tela con aggiunta a foglia e polvere d’oro e d’argento, 64 x 50 cm, firmato e datato in alto a destra, “G. Segantini 1890”. Sul verso scritta a matita “Segantini. Un pétale de rose. Hiver 1890 à Savognine Op. LXXXVI”
Collezione privata.
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
Non più visto dalla XXVI Biennale di Venezia del 1952, quando Marco Valsecchi lo espose nella sala dedicata al divisionismo in Italia, il dipinto fa parte di un ciclo di tre opere dedicate agli effetti della luce di una lanterna in un ambiente buio e senz’aria. Le tre tele ripropongono con un linguaggio sperimentale moderno la tradizione luminista seicentesca, da Caravaggio ai fiamminghi e alle acqueforti di Rembrandt, che Segantini ben conosceva. La prima opera, la più monumentale, “Le due madri. Studio di lanterna” è una tela di oltre tre metri del 1889 ora conservata alla Civica Galleria d’Arte Moderna di Milano; la seconda, “All’arcolaio”, del 1891 è conservata in Australia dal 1898 alla National Gallery di Adelaide. Il soggetto riprende quello de “Le due madri”, il quale, attraverso un parallelo tra l’essere umano e l’animale, raffigura la maternità come fatto naturale che unisce le creature, bisognose di tenerezza e calore. Tutte e tre le opere sono capolavori, tuttavia l’effetto magico della luce, che ammanta la scena di trascendenza, è ancor più percettibile in “All’ovile”, proprio per la dimensione più intimista. Per quanto riguarda la tecnica divisionista, qui Segantini va oltre la resa suggestiva della luce utilizzando di trattini di colori puri giustapposti secondo lo sviluppo della forma e l’irradiarsi dei riflessi che reggono l’immagine. Inoltre, l’utilizzo di oro in polvere e in particelle incorporate all’impasto fresco consente all’artista di accentuare le vibrazioni con un suggestivo luccichio, secondo un modo iniziato con “Petalo di rosa” nel 1890. Come sempre colpisce la profonda capacità di suggerire l’essenza delle cose, la loro fisicità: dal vello delle pecore al tessuto del vestito della donna e al suo volto, al legno della mangiatoia diverso da quello della culla, tutto prende vita, persino il sentore umido e ovattato dell’ambiente-rifugio.
Gallerie Maspes, Milano
In “Riflessioni di un affamato” Emilio Longoni raggiunge l’apice sia dell’impegno sociale che della raffinatezza nell’applicazione della divisione del colore. Questa è stata ed è tuttora l’opera più discussa dell’artista. Il quadro venne pubblicato in fotoincisione su un giornale socialista accompagnato da un breve testo che dava voce ai personaggi raffigurati: un operaio rimasto senza lavoro, intirizzito dal freddo e fermo a guardare la coppia aristocratica che mangia felice. Il dialogo provocò la reazione immediata della censura, che dispose il sequestro del giornale e l’incriminazione del pittore per “istigazione all’odio di classe”, reato per il quale Longoni fu processato. Il dipinto segna per Longoni l’ultima battuta della pittura concepita come denuncia. Un paragone tra il già discusso “Oratore dello sciopero” e l’opera in esame ci fa capire quanto Longoni abbia perfezionato la tecnica divisionista. La raffinatezza del tratto permette a Longoni di esprimere con tanta staccata freddezza la luce biancastra di una giornata di neve, le sfumature del caldo dietro la vetrata e lo sgomento del ragazzo infreddolito che contempla la ricchezza. Mentre “L’oratore” era provocatorio, “Riflessioni” è profondamente commuovente, ma in entrambi le tele è la tecnica a suggerire l’emozione.
Biella, Museo del Territorio Biellese
“Sogno e realtà” conclude un ciclo di dieci anni che aveva spinto Morbelli a creare un suo studio all’interno del Pio Albergo Trivulzio per poter fotografare i suoi modelli. Ciò gli consentì di creare un archivio di immagini che potesse formare la base per i suoi futuri dipinti. L’opera è un unicum nell’iconografia di Morbelli, un artista sempre legato alla realtà nei minimi particolari che qui tenta, per la prima volta – e lo farà pochissimo – di misurarsi con il simbolo. Il dipinto è una meditazione sul trascorrere del tempo e sulla memoria. Morbelli sceglie il trittico come forma espressiva perché negli ambienti simbolisti europei l’uso di questa forma rinascimentale era frequente, non solo per ragioni decorative ma perché la struttura faceva da scrigno al pensiero espresso nel dipinto. In questo caso lo scandire tripartito dell’immagine ha permesso a Morbelli di confinare la realtà dell’oggi nei due panelli laterali, con la vecchietta in quello di sinistra e il suo compagno in quello di destra, separandola dal loro sogno evocato nel pannello centrale in cui i due innamorati ci appaiono all’inizio della loro lunga vita. Alla realtà e al sogno corrispondono due diverse tecniche d’approccio alla divisione del colore: una minuta nelle pennellate intrecciate dei due ritratti, in cui la luce accarezza i volti e le mani, una più larga e sciolta nel chiaro di luna bluastra del sogno.
Milano, Cariplo Foundation Collection, Gallerie d’Italia
Dopo esser stato estromesso dal fratello Alberto dalla Galleria che aveva creato, Vittore decise che dipingere doveva essere per lui ragione di vita. Autodidatta o quasi, trovò nel paesaggio lacustre la forma più idonea ad esprimere la sua sensibilità intimista. Sul retro della tela sono annotati dallo stesso Grubicy gli anni 1891, 1903,1905, 1912: si riferiscono alle varie ridipinture che ha effettuato su quest’opera come usava fare su ogni dipinto ancora in suo possesso. Ciò gli consentiva di rivestire l’opera di una dimensione temporale, autobiografica, rinnovando l’emozione che ne aveva determinata la creazione. In tal modo è impossibile determinare l’evoluzione di Grubicy. Anche il dipinto “Bosco” che avete visto nella seconda sala non ci appare oggi come quando fu iniziato o esposto, bensì rivestito dell’ultima stesura di puntini. Era stato Grubicy a trasmettere in Italia le fonti scientifiche delle leggi dell’ottica. Egli ne fece un uso unico e personale, creando con interventi successivi nel tempo una materia a strati sovrapposti l’ultimo dei quali a puntini. Questa sua originalissima concezione del dipinto era ispirata da una serie di teorie sui concetti di tempo e di percezione elaborate in Francia e molto in voga all’epoca. Ogni stesura successiva corrisponde per lui alla percezione e allo stato d’animo del momento. In “Quando gli uccelletti vanno a dormire”, che Vittore considerava giustamente uno dei suoi lavori migliori, egli trasforma un crepuscolo invernale sul lago in uno stato d’animo di lieve malinconia.
Collezione privata, in comodato d’uso presso Il Divisionismo ‒ Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona
Il dipinto, presentato alla seconda Biennale di Venezia, è la redazione in tecnica divisionista di un soggetto molto caro a Morbelli e per questo già affrontato altre due volte, la prima ad olio nel 1884, la seconda a tempera nel 1888, ed è accolta dalla critica contemporanea come uno dei lavori più sentiti ed emotivamente coinvolgenti tra quelli fino ad allora dipinti dal pittore. In Venduta, un’opera delicatissima e al contempo struggente, Morbelli affronta un tema di scottante attualità nella Milano ottocentesca, quello della prostituzione minorile, vera e propria piaga sociale che affliggeva non solo la città lombarda in cui il pittore viveva, ma molte altre moderne metropoli dove, troppo spesso, lo stato di indigenza in cui versava parte della popolazione induceva le famiglie a vendere le proprie figlie. Eseguita in un linguaggio divisionista ormai maturo e raffinato che avvolge morbidamente, grazie alle sottili vibrazioni ottenute dalla pennellata divisa a tratti e piccoli punti, figura e ambiente, la tela è davvero, come suggerito dalla critica dell’epoca, un’opera impressionante in cui l’artista è riuscito a trasmetterci attraverso i soli occhi umidi della fanciulla tutta la sua anima, il suo disperato stupore, la sua vergogna, la sua intensa angoscia. In vista della sua esposizione in questa mostra, la tela è stata oggetto di un accurato intervento di restauro da parte di Enrica Boschetti.
1897
Olio su tela, 67x 107 cm
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
Per Pellizza a partire degli anni 90 è la luce del paesaggio di Volpedo, centro del suo microcosmo interiore, che genera la simbologia del dipinto. “Sul Fienile” ne è dimostrazione chiara. Alla fine dell’estate 1892, osservando il fienile in ombra di fronte al suo studio e al di là di esso la campagna assolata, pensò a contrapporre la fine della vita alla natura perennemente rigenerata. Così nasce quest’opera, uno dei suoi capolavori. “Doveva essere una storia greve”, scrive Pellizza. Un operaio agricolo senza dimora né famiglia, colto da malore, sta chiudendo i propri giorni sulla paglia di un fienile. La genesi del dipinto passa attraverso numerosi disegni e due studi ad olio intitolati “Carità cristiana”. Il cambiamento di titolo, come sempre in Pellizza, corrisponde ad una maturazione del soggetto: quello definitivo spoglia l’opera di qualsiasi implicazione patetica. “Sul Fienile” è una meditazione sulla morte senza sovrastrutture ideologiche o religiose. Dietro, mentre si consuma il dramma, i piccoli tocchi verdi e gialli della vegetazione e le rassicuranti geometrie delle case riaffermano la continuità della vita. Dalla controluce del primo piano all’intensa luminosità delle quinte, si afferma un vitalismo che nulla deve alla fede cattolica, ma sembra più vicino al mito dell’eterno ritorno espresso da Nietzsche in Così parlò Zaratustra.
Collezione privata
“Il roveto” è un magico connubio tra il rigore della tecnica divisionista e una composizione senza angoli né parallele. Non a caso la tela è centinata, ovvero dipinta nella parte superiore in modo da farla apparire ricurva. Questo stratagemma è spesso adoperato nei dipinti simbolisti del periodo. In questo caso Pellizza se ne serve proprio per assecondare l’andamento ondulatorio delle masse di vegetazione. Qui la luce è protagonista indiscussa: penetra attraverso le foglie ed inonda tutta la tela, fino ad irradiare anche noi spettatori. Le pennellate sono stese a piccole macchie, a filamenti, a puntini, comunque sempre con pennelli a setole finissime e flessuose, in modo che le piante schermino il sole che tramonta. Pellizza ci sta comunicando l’emozione suscitata in lui dalla natura che si intuisce al di là dell’immagine come nella siepe leopardiana. In quegli anni, avendo approfondito i fenomeni della refrazione studiati da Ogden Rood, Pellizza è in grado di misurarsi con la traduzione dei fenomeni luminosi generati dal sole, persino in osservazione diretta: un anno più tardi dipingerà “Sole nascente” della Galleria Nazionale di Roma, una delle vette del paesaggio simbolista italiano di matrice divisionista, senza equivalente in Europa. In “Il roveto”, l’assenza dell’essere umano o animale e l’inquadratura ravvicinata sui cespugli servono proprio ad amplificare la potenza di questa simbologia della luce.
Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi
Il dipinto è la prima versione della tela intitolata Il ritorno dei naufraghi al paese o L’annegato presentata a Brera nel marzo 1894, al concorso per il Pensionato Artistico Nazionale. La redazione finale, non terminata, fu acquistata dal Comune di Alessandria, per collocarla presso la Pinacoteca Civica. Lo studio a olio qui in mostra è stato realizzato dalla realtà e si è suggerito che a ispirare Pellizza sia stato qualche scorcio milanese nei pressi del Naviglio di San Marco, non lontano da Brera. Non vi sono differenze significative tra questa versione e la redazione finale, salvo un dettaglio non secondario. Nella tela che ammiriamo il fondale architettonico assume le forme di una cortina impenetrabile di muri e tetti che chiudono lo sguardo, mentre nel successivo cartone e nella redazione definitiva, Pellizza ritaglia tra le case, proprio al centro della composizione, un’apertura che regala un nuovo respiro alla scena, lasciando intravedere il mare e il cielo: una scelta che conferisce all’immagine un tono meno lugubre e cupo. La tela è una testimonianza preziosa: da un lato consente di entrare nel vivo dell’elaborazione di un’opera che si colloca in un momento significativo del percorso di Pellizza, quando intraprende le prime sperimentazioni con la tecnica divisionista. D’altro lato, con questa tela e le opere che vi si collegano, l’autore affrontava nelle sue implicazioni personali e sociali quel tema del lavoro e dei lavoratori che è una delle spine dorsali della sua ricerca.
1894
Olio su tela, 34,5 x 57,5 cm
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
“La neve” è uno dei paesaggi più lirici di Pellizza e uno degli ultimi. La composizione è serrata e conferisce una ricchezza austera ai dati visivi in un quadrato che l’artista riempie di elementi contrapposti: un ruscello tra due chiuse, un ponticello di gusto giapponese e la vasta distesa dei colli che l’assenza del cielo rende ancor più infinita. Qui, nella dolcezza della luce crepuscolare, la neve si carica di tutte le sfumature del prisma. Pellizza non lascia nulla al caso; persino la figura della donna che corre e i gelsi brulli dalle forme contorte sono inseriti per rompere il rigore geometrico.
Collezione privata
Non più vista dal 1970 quest’opera, malgrado fosse nascosta al grande pubblico, ha fatto versare molto inchiostro e non a caso ne esistono alcuni falsi. E’ un unicum nella produzione di Segantini, autore che raramente si cimenta in paesaggi puri dal gusto espressionista, come questo. Qui la luce è concentrata nella zona di neve in primo piano, mentre le architetture sono disegnate con linee ruvide; il divisionismo è di contrasti di colori puri, come si può osservare nel cielo: l’insieme assume una forte valenza emotiva, accentuata dalla nota lugubre del volo dei corvi. Segantini parlava della neve come “morte di tutte le cose”, ed è proprio il sentimento che esprime questa tela. È riferibile al 1890, certo non prima, come dimostrano sia il pieno possesso della tecnica divisionista che la rappresentazione dei monti, dietro Savognino, sotto un cielo intenso. Nei primi anni nei Grigioni, Segantini si concentrava sul villaggio preferendo rimandare a più tardi la rappresentazione delle montagne. Va ricordato che i paesaggi segantiniani non sono mai ripresa diretta dal vero. Nonostante l’artista dipingesse all’aperto, creando delle apposite strutture per proteggere le tele e lasciarle in loco sino al termine del lavoro, il suo approccio era l’opposto di quello degli impressionisti: la realizzazione di un’opera si protraeva per mesi e anni, reinterpretando la percezione e cambiando persino le angolazioni se tali modifiche gli sembravano giustificate per rendere l’essenza della natura. E anche questo dipinto, capolavoro atipico di Segantini, non fa eccezione.
Collezione privata
Per la prima volta in quasi cent’anni l’opera viene riproposta al pubblico, dopo esser stata pulita e restaurata in occasione della nostra mostra. Come Fornara ne era ben conscio, il dipinto, realizzato tra il rientro dall’America Latina nel giugno 1912 e l’inaugurazione della Biennale di Venezia dell’inizio dell’aprile 1914, è uno dei suoi assoluti capolavori. La composizione produce un suggestivo effetto panoramico: il paesaggio (col campanile, le baite ed il monte) richiama i paesini vicini alla casa dell’artista; chi conosce la val Vigezzo noterà che le vette sono studiate da obiettivi differenti e non unificabili in un’unica prospettiva. Si tratta dunque di un paesaggio composto. La tecnica divisionista è memore di quella di Segantini ma l’opera non ha nulla del panteismo del maestro; Fornara ha saputo infondere al suo amato paesaggio vigezzino una serenità confortante.
Collezione privata
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
Erroneamente detto “Il Vento”, l’opera è uno dei sei pannelli della sala della musica conservata presso il Vittoriale degli Italiani nota come “Aria”, “Allegoria musicale” o “Melodia”. È il nostro primo incontro con il simbolismo allegorico di Previati, molto diverso rispetto a quelli di Segantini o di Pellizza, sempre generati da un’interpretazione della natura. Con allegoria si intende un’idea rappresentata da una figura. Dal punto di vista tecnico, Previati, il vero teorico del divisionismo italiano al quale si devono tre trattati di tecnica pittorica, in quegli anni stende il colore in un modo essenzialmente grafico: la pennellata è linea. La gamma cromatica accesa degli arancioni e rossi si traduce in un segno sinuoso. Previati sostiene il pennello sulla tela per lunghi tratti, in questo caso suggerendo il fiato o la tensione del corpo della donna a produrre il suono. Il ciclo fu commissionato da Alberto Grubicy per decorare la camera di sua figlia appassionata di musica, che si spegne nel 1910. Esposto nel 1909 a Parigi e nel 1910 a Milano, non se ne avranno più notizie fino agli anni 1919-1920 in cui Grubicy stende il testamento nominando erede l’Associazione Mutilati di Guerra, con la clausola che le tele di Previati dovevano essere consegnate a D’Annunzio per sostenere la causa di Fiume. Per una serie di vicissitudini le tele arrivano al Vittoriale solo nel 1939.
Gardone Riviera, Fondazione Il Vittoriale degli Italiani
Il magistrale trittico, realizzato tra il 1916-1917, non è più stato visto dalla Mostra “Previati a Ferrara” nel 1969. È l’ultima opera importante di Previati. L’artista morirà tre anni più tardi in uno stato di abbattimento che da mesi gli impediva di dipingere. È il suo canto del cigno, un’opera monumentale configurata come un fregio pervaso da una luce visionaria che ne demarca la natura onirica e simbolista. Lo vedete prima di entrare nella sala dedicata all’artista, mentre in realtà dovrebbe concluderla. Tuttavia, il lungo corridoio di accesso è particolarmente adatto a valorizzarne la struttura e sembra sottolinearne il simbolismo. Rievocazione dei tramonti autunnali della campagna ferrarese che avevano fatto parte dell’infanzia dell’artista, l’opera è un ritorno alla fanciullezza. Lo schema compositivo è stilizzato e antinaturalistico. I cipressi di verdi cupi che contrastano con la gamma dei rossi del vasto cielo formano la tela centrale del trittico. Quest’ultima crea una quinta con le due laterali in cui gli animali stilizzati appaiono in processione dietro e fuori campo. L’effetto di luce e la particolare composizione, in cui la tela centrale è la più piccola, concorrono a dare un senso di circolarità alla scena. Dall’opera in esame si evince lo spiccato interesse di Previati per la fotografia in movimento inventata da Muybridgee.
Roma, Enel
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
I disegni di questa sala sono tutti rielaborazioni di dipinti anteriori. “Ave Maria sui monti” riprende un dipinto realizzato in Brianza. L’opera originale, dal taglio verticale, era una delle prime dedicate alla fede degli umili. Dal paesaggio, appena suggerito ma non descritto, emanava solitudine. Trasponendo la scena nel vasto panorama di Savognino e trattandola in orizzontale, Segantini conferisce all’immagine un senso di maggior spiritualità: la preghiera diviene atto di contrizione della giovane contadina, non più seguita dall’agnellino, simbolo del Cristo sacrificato, ma da un serpente, evocatore del peccato originale. La luminosità del cielo, che sembra avvolgere la “penitente”, la vastità del paesaggio dalle cime svettate, tutto suggerisce un senso di pace e serenità, quasi di redenzione.
Collezione privata, courtesy Art Studio Pedrazzini
Capolavoro assoluto della grafica fine secolo, “La natura” è un disegno di presentazione che riprende fedelmente la tela centrale del Trittico della Natura, conservata al Museo di St. Moritz, a cui Segantini stava ancora lavorando quando improvvisamente morì. Delle tre opere su tela, “La Natura” è la maggiore per dimensioni ed è quella iniziata nel 1896, prima che l’artista decidesse di affiancarla alle altre due per creare il “Trittico” destinato all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Oltre a questo, rinvenuto soltanto negli ultimi vent’anni, Segantini aveva realizzato una complessa serie di disegni di presentazione raffiguranti le tre immense tele con un corredo di allegorie aggiuntive nonché con le loro cornici caratterizzate da rappresentazioni della vegetazione alpina. L’apparizione dell’allegoria costituisce una vera e propria svolta nell’immaginario dell’artista in sintonia con l’orientamento del simbolismo europeo. Le allegorie programmate erano destinate ad affiancare le grandi tele, una di questa è il Rodendro. La potete ammirare vicino alla “Natura”: rappresenta il fiore alpino di fine estate nelle alture quale figura nuda di proporzioni preraffaellite e quindi funge da allegoria della stagione. Ammirate le gradazioni di grigi e di neri che ricreano il grande paesaggio e l’infinita varietà del tratto riscontrabile sia nel grande disegno che in “Rododendro”.
Collezione privata
Introduzione a cura della professoressa Annie Paule Quinsac curatrice della mostra
Il restauro dell’opera, realizzato per questa occasione, ha permesso di riportare alla luce colori vivaci che esaltano l’assenza del disegno di base. La linea diventa, così, elemento costruttivo per eccellenza. L’opera si contraddistingue per un simbolismo nell’immagine che non trova equivalente né in Italia né altrove. Alla glorificazione della maternità, che è uno dei temi centrali del divisionismo simbolista in Italia, Barabino sostituisce la coppia di genitori simbioticamente fusa in un solo corpo, in estasi davanti al proprio figlio: un bambino che sembra uscire dalla terra, come se ne fosse la creatura. Il volto del padre che lo guarda irradia uno stupore quasi surreale e nel misticismo laico che permea l’opera la sua presenza si contrappone a quella materna. È interessante osservare come l’artista reinterpreti il paesaggio, una pianura chiusa dai monti innevati sotto un cielo simbolico in cui si intravedono i due astri, il sole e la luna, come nelle icone bizantine, rendendolo cassa di risonanza delle emozioni più intense. Lo stesso modo in cui è steso il colore, in un divisionismo filamentoso memore di Previati, concorre a creare la dimensione atemporale in cui si materializza una genitorialità laica ed universale, in fusione con la natura.
Collezione privata
Il quadro viene dipinto nel 1908, quando l’artista si trasferisce nella seconda località della sua permanenza in Versilia. Come per Longoni, anche per lui, sin dal 94, la stagione della denuncia sociale appartiene al passato. In quei luoghi incantati, Nomellini trova paesaggi incontaminati che alimentano il suo immaginario e allontanano la mente dalla civiltà moderna, sempre più alienante e massificata. Tutte queste suggestioni danno vita ad un percorso tematico ben preciso impostato sul mare come forza rigenerante. I risultati sono opere estremamente suggestive, sensuali e luminose. Esempio perfetto ne è “Baci di sole”. Qui l’aspetto intimista (di ascendenza pascoliana) e quello vitalista (derivato da D’Annunzio), trovano il perfetto accostamento. Il dipinto è reso in un divisionismo sui generis a macchie veloci di grande intensità cromatica che avvolgono la moglie e il figlioletto Vittorio in una luminosità gioconda.
Novara, Galleria d’Arte Moderna Paolo e Adele Giannoni
“Sorriso del lago” è un paesaggio puro eseguito intorno al 1914, periodo in cui Longoni ha raggiunto la piena maturità, espressiva e tecnica. Dal tragico 1894, aveva abbandonato i dipinti di denuncia, trovando nel paesaggio a valenza simbolica uno sbocco per la sua evoluzione buddista, di quel buddhismo di rimando derivato della lettura di Schopenhauer. Il dipinto è stato realizzato sulle rive del lago Maggiore, ambientazione insolita per Longoni, e raffigura, avvolta nella foschia mattutina, la pittoresca Isola dei Pescatori, luogo particolarmente amato e frequentato dai paesaggisti del secondo Ottocento. La scelta insolita del soggetto – Longoni in quegli anni è ufficialmente il “pittore dei ghiacciai” – potrebbe spiegarsi come una sorta di omaggio a Filippo Carcano, scomparso nel gennaio del 1914, e ad una sua tela di grande successo. In sua memoria, nel 1915, per volontà della moglie di Pietro Baragiola, collezionista e mecenate di Carcano scomparso anch’egli nel 1914, verrà istituito il Premio Baragiola per la pittura di paesaggio dal vero, premio al quale Longoni parteciperà proprio con l’opera che stai ammirando.
Collezione privata
Conosciuto erroneamente come Era già l’ora che volge al desío o ancora come Abbandono, Convalescente, Terrazza sul lago d’Iseo, il dipinto è invece identificabile con Per sempre, lavoro presentato da Morbelli a Milano, nel 1906, alla Mostra nazionale di Belle Arti del Sempione. Sulla tela Morbelli rappresenta la figura di una giovane donna senza vita, ormai abbandonata sulla sedia a sdraio sulla quale stava leggendo, contro lo specchio del lago d’Iseo. Un quadro malinconico, di carattere romantico, lo stesso carattere già presente in S’avanza (1896), che si può considerare il precedente diretto della nostra tela, opera aperta a suggestioni simboliste, non estranea a tramandi della pittura preraffaellita, che raffigurava una giovane donna ammalata di tubercolosi, ormai prossima alla fine, rappresentata di schiena, adagiata su una sdraio, di fronte alla campagna monferrina arrossata dal tramonto. Nell’opera che stiamo ammirando, la figura femminile, non è più colta di spalle ma di profilo, ormai esanime, con il braccio e il capo abbandonati su un cuscino che, come già il libro che teneva tra le mani, sta scivolando lentamente a terra. Tuttavia, il clima dell’opera è più disteso di quello che il titolo sembrerebbe indicare, più che il presentimento della morte che caratterizzava S’Avanza, ci sono malinconia e languore, in un contesto soffusamente evocativo, che avvolgono figura e paesaggio. Paesaggio in stringente assonanza con la figura femminile ritratta, dove le coste frastagliate dei monti sembrano riprendere le linee morbide e sinuose della veste della giovane, delle gale fittamente increspate dei cuscini.
1906
Olio su tela, 87 x 135 cm
Firma e data in basso a sinistra: Morbelli 1906
Collezione privata
Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma tra il 1941 e il 1944, e Dante Almansi, Presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane dal 1939 al 1944, vengono convocati da Herbert Kappler, Capo della Polizia di Sicurezza tedesca (Sipo) a Roma, a Villa Wolkonsky, sede dell’ambasciata tedesca fino all’occupazione. Kappler chiede la consegna di 50 chili d’oro alla Comunità, pena la deportazione di 200 dei suoi membri.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Settimia Spizzichino
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Nasce il 15 aprile del 1921 ed è la quarta di sei figli. In un primo tempo la famiglia vive a Tivoli dove il padre, Marco Mosè Spizzichino, è commerciante. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche, persa la licenza del negozio, la famiglia decide di trasferirsi a Roma, presso le figlie Ada e Gentile ormai sposate.
Il 16 ottobre i nazisti irrompono nell’appartamento di via della Reginella 2, dove gli Spizzichino risiedono. Con la prontezza che la contraddistingue, Settimia riesce a salvare la sorella Gentile e i suoi tre figli dichiarandoli non ebrei. Lei viene però deportata con la madre Grazia Di Segni, le sorelle Giuditta e Ada, la nipotina Rosanna di solo 18 mesi.
All’arrivo a Birkenau solo Settimia e Giuditta superano la selezione, mentre le altre vengono mandate alle camere a gas. Giuditta, purtroppo, non sopravvive al lavoro schiavo.
Settimia, immatricolata con il numero 66210, viene successivamente trasferita ad Auschwitz I per essere sottoposta a una terribile sperimentazione medica a cui miracolosamente sopravvive. Nel gennaio del 1945 deve affrontare anche la “marcia della morte” verso il campo di Bergen-Belsen, dove rimane fino all’arrivo degli inglesi. L’11 settembre rientra finalmente a Roma.
Settimia è una delle prime persone sopravvissute ad Auschwitz a testimoniare il dramma della Shoah, impegno che avrebbe onorato per tutta la vita.
Nel 1996 esce il suo libro: Gli anni rubati. Muore il 3 luglio 2000 a Roma.
Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo David Calò
Dante Almansi sul suo colloquio con Herbert Kappler, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Milano, Guerini e associati, 2006.
“Voi e i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me importa poco. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato dei peggiori fra i nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo se adempirete alle nostre richieste. È il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro paese. Entro 36 ore dovete versarmene 50 Kg. Se lo verserete non vi sarà fatto del male. In caso diverso, 200 fra voi verranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o altrimenti resi innocui.”
Da G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001.
“Effettivamente, la sera del 26 settembre 1943, il presidente della Comunità Israelitica di Roma e quello dell’Unione delle Comunità Italiane – tramite il dott. Cappa, funzionario della Questura – erano stati convocati per le ore 18 all’Ambasciata Germanica. Li ricevette, paurosamente cortese e «distinto», il Maggiore delle SS Herbert Kappler, che li fece accomodare e per qualche momento parlò del più e del meno in tono di ordinaria conversazione. Poi entrò nel merito: gli ebrei di Roma erano doppiamente colpevoli, come italiani […] per il tradimento contro la Germania, e come ebrei perché appartenenti alla razza degli eterni nemici della Germania. Perciò il governo del Reich imponeva loro una taglia di 50 chilogrammi d’oro, da versarsi entro le ore 11 del successivo martedì 28. In caso di inadempienza, razzia e deportazione in Germania di 200 ebrei. Praticamente: poco più di un giorno e mezzo per trovare 50 chili d’oro.”